Americhe Notizie da: Reportage 

“Il Segreto di un Fiore”

Fu una donna dal colore della pelle simile alla cioccolata al latte a farci sobbalzare in una specie di autogrill, tra cappelli di alpaca avana ed effusi alla coca bollente serviti in vecchi bicchieri di vetro sbucciato, identici a quelli che trovavo in cucina della nonna, trent’anni fa, dall’altra parte del mondo, a Pian di Potine, periferia di Meleto, in piena estate, nella madia di formica bianca.

Il deserto portava voci lontanissime e qualcuno pensò di aver sbagliato pianeta. Guglie di roccia lavica scurissima creavano picchi aguzzi l’uno appiccicato all’altro, in lontananza, il vento sferzava erba gialla e vigogne caffellatte pascolavano serenissime dove la terra parla una lingua tutta sua con il cielo. La cordigliera occidentale delle Ande.

Scrutavamo i minimi mutamenti del profilo dell’orizzonte alla ricerca delle sembianze della Titanca. Ma nulla. Rimpicciolivamo gli occhi, aguzzavamo i nervi ottici, affilavamo gli sguardi. Nulla.

Tanta, tantissima erba gialla in quegli altipiani incredibili, che finivano con le punte affilate e lontanissime dei vulcani più lontani, bianche per la neve e per la luce, tanta spiritualità in quel silenzio. Tanto freddo in quella specie di autogrill, seduti tutti su una consunta panca in legno, con i colletti alzati ed i sogni a metà. Tanta speranza, ma poco altro.

Fu una donna dal colore della pelle simile alla cioccolata al latte a farci sobbalzare, mentre il tipo che guidava il bus, grasso e affannato, versava acqua nel motore del vecchio mezzo fumante e fiacco, a causa delle salite, delle curve e chissà, forse pure del nostro peso.

Si, una giovane aimaras, con una veste in lana fucsia e un sorriso leggero come il bagnasciuga dell’oceano azzurro delle terre del sud ci fece sobbalzare. Ci guardò con tenerezza, accarezzando una cagna affaticata per il parto probabilmente avvenuto poco tempo fa, giudicando dai seni gonfi e consumati dai morsi dei piccoli. Ci guardò con tenerezza, si, con gli occhi di una che si sta chiedendo cosa diamine vadano cercando questi undici italiani a 4500 metri sul livello del mare. 11 italiani che dicevano di aver attraversato l’Atlantico per vedere fiorire quel fiore, la Titanca, in cima alle Ande. Quel fiore che campa anche oltre cento cinquant’anni e che fiorisce solo una volta in vita sua, prima di morire. Come il canto del cigno.

O il perdono che chiede a Dio il peccatore agnostico prima tirare le cuoia.

 

Chi mai vi ha detto che la Titanca fiorisce da queste parti, tra Arequipa e Puno? Chi mai vi ha fatto fare tanta strada per arrivare qua, tra noi, poveri e sparuti allevatori di vigogne, a cercare la regina delle Ande? Colui che vi ha mandato qua é un impostore, perché la Titanca quassù non cresce più da decenni, io non l’ho mai vista nemmeno in fotografia. 

Era l’orgoglio di ogni incas, era il simbolo della nostra rinascita, era l’essenza del nostro sangue. Purtroppo però ormai da queste parti non la troverete più. La sua radice spiccava seppur rara anche su questi picchi, ma ormai ci ha lasciato soli. Sono almeno due generazioni di amaras che è scomparsa, si è estinta”.

 

Le parole di quella donna mi lasciarono senza fiato. Rimasi di sasso, mentre un ululato lontano mi fece correre un brivido lungo la schiena. Si alzò un rimasuglio di polvere in un mulinello che il vento spostò lungo la strada. Passò un camion che fece un rumore pazzesco. Si alzò in volo un condor sulla cima del picco più vicino ai nostri sguardi impietriti.

Quella donna che allevava vigogne non mentiva. Lo si leggeva a chiare lettere nei suoi occhi che diceva la verità. Era desolata, forse dispiaciuta, sincera.

 

“Da queste parti ora oltre ad un bicchiere di latte caldo troverete polvere, erba secca e una ferrovia che corre verso Puno, seguitela, arriverete sulle sponde del lago Titicaca, nelle isole di Amantani e di Taquile, in cima a quelle piccole e misteriose colline dicono che la Titanca cresca ancora. Quella gente vive come mille anni fa, ma prima di cercarla sappiate una cosa. 

La Titanca si mostrerà a voi solo se riuscirete a spiegarvi fino in fondo il motivo del vostro viaggio”. 

 

Nessuno parlò. Non fu il sorriso che come un taglio si era aperto sul volto della giovane aimaras ormai alle nostre spalle a consolare i nostri silenzi.

Ci rimettemmo in viaggio verso il Titicaca, amareggiati e stanchi, su quel vecchio bus traballante masticammo foglie di coca e cantammo vecchie canzoni di mare con una chitarra scordata.

Ci facemmo cullare dal mal di montagna, sputammo saliva insanguinata alle soste, pisciammo su rocce impensabili, dissertammo di antichi viaggi, di vecchie emozioni e di ricordi mai evocati.

I più profondi quando vengono a galla.

La malinconia del deserto sostituì l’entusiasmo della vulcanica Arequipa.

Ripensavo alle parole di quella pastorella delle Ande, che fra le merde a pallini di vigogna e un bicchiere di mate ci aveva liquidato e spedito a sud est.

Quelle parole mi insinuarono un dubbio.

Eravamo davvero in viaggio per capire il cuore delle genti che abitavano ed avevano abitato quella terra dopo il sangue fatto spargere dai conquistadores?

Guardai i miei compagneros.

Provai a scrutarli fra una curva e l’altra, sperando che non si accorgessero del mio sguardo.

Mi chiesi se davvero fossero partiti per quella ragione oppure se mentissero. Mi chiesi se in fondo non mentissero anche a se stessi. Mi chiesi se stessero fuggendo, se stessero provando a sognare scappando, se stessero solo provando ad arricchirsi viaggiando, senza porsi troppe domande.

Ma quel monito di quella pastorella era stato chiaro. Non avremmo trovato facilmente quel fiore se non fossimo stati profondamente sinceri con noi stessi.

Ed io non capivo più se davvero lo eravamo, perché lei forse, anzi, sicuramente, lo aveva avvertito.

Non dicevamo la verità. Spacciavamo uno slogan per sincerità ma in realtà anche noi stavamo cercando qualcos’altro.

Improvvisamente comparve mio nonno. Stava in cima ad una scala a pioli, con una maglia color avana ed il suo berretto scuro, con le forbici in mano nei campi della mia infanzia, a Pian di Potine. Era lui, si, lui partito ormai tredici estati fa. Lui portentoso, ironico, lui brillante, lui mai banale. Lui che sapeva dei fiori più di se stesso. Rivederlo mi mosse qualcosa molto in profondità, risentii odori lontanissimi, nello specchio del finestrino nella luce delle Ande mi rividi bambino a pescare nel borro di fronte a casa.

Un sussulto nei miei occhi si fermò quando l’autista, improvvisamente, si voltò e mi comunicò che stavamo raggiungendo il Titicaca.

Comparve come un’eclissi, il nonno. Sorrise bonario, si toccò l’orecchio, mi guardò.

Ero ancora un bambino.

“Filippo ricorda, il segreto dei fiori non sta nella loro bellezza, ma nel loro profumo”.

Scomparve. Lo specchio del finestrino divenne lo specchio di un lago che profumava di mare ed i dorsi nodosi di due isole all’orizzonte, già ci parlavano con dolcezza del nostro futuro.

 

To be continued…

Filippo Boni

 

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